di Maria Teresa Abignente
C’è un tempo giusto anche per gli occhi: quelli di Davide, bambino di Scampìa, potevano vedere solo le brutture che lo circondavano, la violenza di chi gli stava vicino, il dolore di coloro cui manca pane e dignità. Nono di quattordici figli, con un padre che presto abbandona la famiglia, Davide bambino non vede farfalle in giro per Scampìa, non ne ha il tempo, non ne ha voglia. Deve crescere in fretta, senza scuola, senza sogni, senza neanche il diritto di aver paura: i suoi sono gli occhi di chi ha già visto troppo.
Scampia è un quartiere a nord di Napoli, tristemente famoso per essere uno dei quartieri più popolosi, dove c’è la più alta percentuale di disoccupati in Italia ed è la più grande piazza di spaccio di droga in Europa. Le sue vele, costruzioni fatiscenti col nome di colori falsamente accattivanti, sono state scelte per fare da set in svariati film dedicati alla camorra. Peccato che quella malavita non sia solo una finzione: Davide la vede, la respira e ne resta ammaliato perché rappresenta per lui la possibilità di farsi valere, di avere soldi e rispetto, di essere finalmente visto e benvoluto da qualcuno. E non fa niente se quel qualcuno è il boss che lo assolda. Così Davide a dieci anni è già ricercato dalla polizia, a quattordici gestisce una piazza di spaccio e dallo “zio”, il suo boss, riceve in regalo la prima pistola. Basta quella a farlo sentire forte e ammirato, basta quella a dichiarare chiusa un’infanzia mai iniziata. A diciassette anni viene gambizzato dagli esponenti del clan rivale e, dopo quaranta giorni di ospedale, ne esce con un unico desiderio, quello di vendicarsi.
Non è strano dunque trovarlo a 18 anni in galera, a Poggioreale, padiglione Avellino, stanza 31, insieme ad altre 25 persone. Ma proprio là, proprio in quella situazione che poteva diventare per lui la pietra tombale di tutte le speranze, accade qualcosa. I suoi occhi vedono. Qualcuno, durante l’ora d’aria, ha lasciato sulla sua branda una Bibbia: non sta bene per un piccolo criminale farsi vedere mentre si leggono quelle pagine, c’è da vergognarsi, c’è da nascondersi, significa mostrarsi debole. La Bibbia è roba da femminucce o da vecchie bigotte che vanno in chiesa a dire il rosario, mica da rodati camorristi.
Lo sfoglia appena quel libro, con noncuranza, quasi con strafottenza, ma lo sguardo si impiglia su una pagina dove per tre volte viene ripetuto il nome Davide, il re, il pastore, il poeta dei salmi. Non può essere un caso, pensa Davide il carcerato, e strappa quella pagina per rileggersela con calma, quando nessuno può vederlo: quelle parole “iniziarono a scardinare la mia forza criminale, mi misero in confusione, indebolirono le mie difese”, ci racconta Davide.
Ci vuole ancora qualche anno perché quelle difese crollino del tutto, ci vuole la forza di un incontro speciale con un pittore, Sergio Bardellino, che gli parla di cose nuove, di libri, colori, di artisti e poesia. Davide ora è pronto, i suoi occhi si sono aperti su tutt’un altro mondo e capisce che può farne parte. Certo non è facile rinunciare alla bella vita, ai soldi facili, all’euforia delle sniffate, ma Davide ha ormai pesato la sua vita e sceglie la forza delle parole al vuoto di prima: “Occupai uno scantinato a Scampia, incominciai a leggere Pasolini, Majakovskij, Danilo Dolci, Don Milani, Alda Merini, Christian Bobin, Erri de Luca. Avevo ormai ventidue anni. La letteratura e la poesia mi hanno aperto degli orizzonti impensabili, mi salvarono.” Da allora non si è più fermato Davide, ha scritto libri, ha testimoniato nelle scuole la sua storia, fotografa “per immortalare, per fermare un’immagine, per guardare bene e capire meglio. Io non avevo avuto la possibilità di essere un bambino e quindi incominciai a fotografare i bambini e incontrare attraverso loro, la mia stessa tristezza, il mio non essere stato bambino. Le mie foto denunciano l’urgenza di restituire a questi bambini di Scampia le ali, per permettere loro la possibilità di volare, con la fantasia, con la cultura, con un ambiente che ne rispetti la crescita, così che potranno alimentare la speranza, impegnarsi per un futuro diverso e, in definitiva, diventare adulti.”
Vive di nuovo là, a Scampia, Davide, e là ha fondato L’albero delle storie, una associazione che, all’ombra delle vele, si occupa di progetti educativi, di stili di vita sostenibili, dell’approfondimento di relazioni affettive significative, di attività ludiche e creative. Un posto che rappresenta la resistenza civile alla criminalità organizzata, come lo definisce Davide, dove lo scopo non è di togliere i bambini dal ghetto, ma i ghetti dai bambini che solo così possono acquisire la giusta consapevolezza del loro valore, della loro unicità, della loro bellezza. E chi più di lui sa quanto le parole e le azioni contano per creare visioni e opportunità di crescita positive per i più piccoli: l’ha sperimentato sulla sua pelle, per questo ha voluto creare una normalità che profuma di straordinario. “Quando ero piccolo i bambini come me venivano classificati a rischio: eravamo semplicemente esclusi, poi, siamo diventati reclusi. I bambini oggi vedono in me quell’adulto che io non ho avuto a guidarmi e a proteggermi. La cosa più importante che ho fatto nella mia vita è stata quella di trasformare il peggio di me nel meglio di me”.
Gli irrecuperabili non esistono grida Davide con la sua vita e Scampia non è solo Gomorra: le vele si possono trasformare in torri di libri, le pistole potranno sparare risate e sogni e i proiettili aprire il cuore alla speranza. È possibile, è questione di occhi.
Tratto dalla rivista di Romena, n. 33 Sollevare lo sguardo