di Marina Marcolini
La nostra fragilità non gira a vuoto, dalle sue fessure si aprono squarci d’infinito. E Gesù si circondava di persone piene di cicatrici non a caso: perché nella vita da feriti si può diventare guaritori.
Quando cambia il tempo, le vecchie ferite e fratture si fanno sentire. Le cicatrici si rimarginano, ma sotto la pelle una fibra nervosa, segreta e sensibile, resta dolente e vibra a ogni cambiamento esterno. Così succede anche alle ferite interiori. Qualcosa è andato in frantumi dentro di noi e più cresciamo negli anni, più corde di risonanza del dolore abbiamo.
Ho scoperto da poco il diario di mia nonna Rita. In una pagina, scritta in un giorno di pioggia dell’anima che aveva risvegliato la sensibilità delle sue cicatrici, si paragonava a un suo vecchio comò. Trasferito da una casa all’altra, usato senza riguardi, urtato molte volte, era ormai tutto ammaccato. Correvano gli anni Sessanta, il legno massiccio, invecchiato e segnato, non valeva nulla, gli si preferiva la perenne verginità della fòrmica. Così nonna Rita faceva il bilancio amaro della sua vita. Ma oggi youtube insegna come dare un’aria vissuta a un mobile, colpendolo col martello, con chiodi, sfregandolo con la carta vetrata, per simulare i segni del tempo, dei tarli e dell’uso. Tutto questo per farlo diventare più bello. Quando diciamo che siamo a pezzi, chi ha detto che siamo da buttare?
«Quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor, 12,10). Frantumarsi può aiutare ad aprire il cuore, a diventare sensibili alle ferite degli altri, a perdonare e perdonarsi, e a non ripetere gli stessi sbagli.
Credo che oggi il tuo vecchio comò varrebbe molto, nonna, e per me sarebbe prezioso come un tesoro, se tu fossi qui. Perché da ogni graffio, da ogni buco, riemergerebbe un filo della tua storia, che io ascolterei con grande sete. Capirei quanto ti è costato essere quella che eri, farei mie le tue battaglie, imparerei
da te il lento lavoro di liberazione dalla scorza dell’orgoglio, l’arte di disarmarsi e di avere speranza, per riuscire veramente ad amare. La ferita è il punto sensibile che ti ricorda che sei imperfetto, che la vita è imperfetta, e che, nonostante tutto, la gioia e l’amore ti attendono.
Il primo che ha amato il legno tarlato credo sia stato Gesù. Ha bandito l’infrangibile plastica dal suo Regno dei cieli. Ha chiamato pietra un uomo che si sbriciolava spesso, meno saldo del ghiaino. Ha scelto per discepole donne con molte cicatrici, Maddalena, Susanna, Giovanna e tantissime altre. Ha cercato, accolto e amato le persone ferite, non per farle languire in infermeria, ma per risospingerle al largo. Conosceva il segreto per attivare energie di guarigione per loro stessi e per gli altri: il miracolo dei feriti che diventano guaritori. Il Nazareno stesso era una pietra scartata, perché colpita, rotta, spaccata.
Di sé diceva che era un medico, un cucitore di ferite, sempre con l’ago in mano. Uno che versava balsami sulle piaghe del cuore e una goccia di colla nelle dolorose fratture tra le persone. Ha amato, ama così tanto, da volere anche su di sé le ferite del nostro dolore. E non le nasconde, non se ne vergogna. Ferite che luccicano di un amore senza misura.
Questo sì davvero infrangibile.
*Marina Marcolini, docente universitaria e scrittrice, ha pubblicato per le Edizioni Romena “Una fede nuda”, “Amore”, “Il vangelo della terra”, “Innamorarsi della realtà”, “C’è dell’oro in questo tempo strano” e “Morbidezza” con Ermes Ronchi.
Tratto dalla rivista di Romena, n. 6/2017 Oro nelle ferite