di Massimo Orlandi
In che modo possiamo entrare in sintonia con i giovani? Per il Cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei, occorre innanzitutto essere veri, autentici, e poi metterci in gioco, e sognare un mondo nuovo insieme a loro…
Don Matteo, se provi a mettere insieme il tuo sguardo e quello dei giovani di oggi, cosa vedi?
Vedo sfide diverse ma lo stesso potenziale di cambiamento. Io ho cominciato a frequentare le superiori il 1 ottobre del 1968. Appartengo a quella generazione che voleva cambiare il mondo. Ma anche i ragazzi di oggi sono consapevoli delle grandi sfide che incombono: pandemie, guerre, cambiamento climatico. Certamente, rispetto ad allora, ci sono forti differenze nelle modalità di reagire al presente e negli stili con cui vengono affrontati i problemi, ma lo sguardo dei giovani ha sempre, in ogni generazione, questa capacità di riorientarci, di sottrarci a quel realismo che ci affossa. Perché da parte loro c’è sempre un desiderio straordinario di guardare al futuro.
Rispetto alla tua epoca, qual è l’aspetto che ti preoccupa di più dei giovani di oggi?
Ho l’impressione che l’adolescenza venga bruciata troppo in fretta. I ragazzi fanno presto tante esperienze con rapidità, con facilità, ma poi passano la vita a comprenderle, perché le cose di cui si cerca di liberarsi alla svelta, curiosamente, durano di più. Nei miei anni giovanili certi passaggi venivano scanditi più lentamente, più faticosamente, però questo ci permetteva di elaborarli. Non voglio fare un discorso da vecchio: ma fare presto cose da grandi non aiuta a diventare grandi in anticipo. Al contrario. “L’adolescenza subito li divora” dice Francesco De Gregori in una canzone. Non è detto che sia un bene.
Di sicuro, rispetto alla comunicazione dei tuoi tempi, c’è questa novità della dimensione virtuale che entra prepotentemente nella loro vita…
Oggi siamo tutti un po’ ‘social’, anch’io lo sono perché, per esempio, uso whatsapp. Questi strumenti tecnologici hanno una grande utilità, però dobbiamo ricordarci che quel mondo lì non deve mai sostituirsi alla presenza fisica. È illusorio e pericoloso limitarsi alla “conoscenza digitale” fatta di apparenza, bisogna entrare nel vissuto degli altri, nella loro profondità: io non vivo per comunicare, non mi faccio i selfie per far capire che c’ero. E allora vanno bene i gruppi social per informarsi, per tenersi in contatto, ma questo non può sostituire il bisogno di guardarsi, di abbracciarsi, il bisogno della fisicità. Soltanto in presenza capiamo il remoto, mentre lo stesso non accade all’inverso. In fondo anche Nostro Signore è uno che è uscito dall’astratto ed è entrato nel concreto. È uscito dal remoto, diciamo così, ed è diventato presenza. La presenza ci aiuta a capire questo mistero di Dio, che si rivela proprio scegliendo di farsi vicino, di farsi prossimo.

In che modo tu cerchi di entrare in contatto con i giovani di questo tempo?
Cercando di non rinunciare a nessuna occasione di incontro. Quando mi invita una scuola, una associazione, un gruppo di giovani io cerco sempre di andare, perché parlarsi, confrontarsi, guardarsi negli occhi è sempre prezioso. Le relazioni umane per me sono la cosa più importante. E lo sono a maggior ragione per un giovane che entra nella vita e ha bisogno di capire chi è, ha bisogno di entrare in contatto con sé stesso. E proprio le relazioni gli offrono l’occasione di farlo. Se non c’è il relazionarsi puoi passare la vita a fare introspezione, a rovistare, a capire, ma non ti trovi perché la vera interpretazione di sé stessi ce la danno gli altri. È nella relazione che ti capisci, in una relazione vera, non digitale, che alla fine è sempre un po’ narcisista o autoreferenziale. Invece davanti alle nostre fragilità, davanti alle nostre inadeguatezze, abbiamo bisogno di qualcuno che ci aiuti a capire chi siamo, qualcuno che ti dica “ti voglio bene”.
Per questo i ragazzi vanno incoraggiati a non pensarsi mai da soli, ma insieme agli altri: se si pensano non da soli ma insieme agli altri, faranno meno fatica a trovare sé stessi e a individuare quella cosa per la quale vale la pena essere sé stessi.
Qual è il peggior errore che commette il mondo adulto verso i ragazzi?
La cosa peggiore è quell’atteggiamento paternalista che ti lascia libero di fare come vuoi, che ti dà la licenza di fare le cose senza valutarle. Non è questo che rende più libero un ragazzo o una ragazza, piuttosto spesso li fa soffrire perché li lascia da soli, senza riferimenti, e li costringe a cercare sé stessi senza potersi raffrontare con qualcuno. Se penso ai miei genitori, sicuramente la loro è stata una modalità educativa tradizionale, però in realtà attraverso quella modalità hanno cercato di dire ai figli le cose che secondo loro si dovevano fare, lasciandoci poi molto liberi. Oggi i genitori non dicono mai ai figli cosa dovrebbero fare e, paradossalmente, questi ragazzi sono molto più dipendenti da loro, e molto meno autonomi.
E per un sacerdote? Quale dovrebbe essere il giusto approccio?
Dovremmo cercare di fare qualche sforzo per essere un po’ più attraenti. Spesso siamo percepiti come lontani, come poco presentabili.
Rendersi attraenti vuol dire essere credibili, autentici, vicini. È molto diverso dal fare i “piacioni”, cioè spingere molto sul tasto dell’apparenza, anche perché l’apparenza può ingannare all’inizio, ma dura poco, e poi non lascia niente. E i giovani capiscono subito, istintivamente, se c’ è qualcosa di vero o meno. Ma per realizzare tutto questo credo che sia necessario trovare il modo di camminare insieme con i giovani. Il camminare insieme, fare esperienze insieme, è ciò che fa maturare le relazioni.

In cosa il linguaggio della chiesa li allontana?
Qualche volta noi riusciamo a rendere difficile, incomprensibile, noiosa, astratta la cosa più bella che c’è: il Vangelo. Il Vangelo parla di me, di noi, della mia, della nostra vita, mi aiuta a capire, mi allarga il cuore, mi coinvolge. È qualche volta invece in chiesa si sente parlare del Vangelo come di una cosa lontana, di un insieme di doveri generici. Occorre una comunicazione di gioia, personale, che faccia capire quanto il Vangelo c’entri con la mia vita.
Qual è lo strumento per superare le barriere generazionali e trovare un terreno comune?
Per me è il sognare insieme. Sognare non significa inventarsi una realtà che non esiste, ma serve a non accettare la realtà così com’è, a volerla cambiare. La sintesi di papa Francesco, al sinodo dei giovani, fu questa: se i vecchi sognano, i giovani avranno visioni. Se noi pensiamo di fare qualche cosa per loro, secondo le nostre modalità, le nostre convinzioni, le nostre prudenze, le nostre disillusioni, i nostri calcoli, li faremo fuggire ancora di più. Se invece siamo capaci di sognare e di metterci in movimento per realizzare i nostri sogni, se i ragazzi ci vedono appassionati, contenti, innamorati di ciò che facciamo, indirettamente saremo di ispirazione per loro. La vera sfida non è di fare qualcosa per loro, ma di essere veri, di essere autenticamente vivi, innamorati della vita.
Tratto dalla rivista di Romena, n. 28/2023 Germogli