Il blog di Romena, a cura di Massimo Orlandi

L’eresia d’amore di don Renzo


Caro Renzo,
ora ci sei. Sei dove non avevi per nulla paura di andare. Sei in quell’oltre che sentivi come una casa già pronta per te, a contatto diretto con la sorgente della tua fede, faccia a faccia con quel Dio che chiamavi babbo.
Sei dove immaginavi da tempo di essere, per questo continuavi a stupirti di tutte quelle proroghe al tuo vivere, interrogandoti divertito su quello stare al mondo che sembrava non volesse mai finire.

“Secondo me si è dimenticato che sono qui” dicevi ridendo, ma era solo un tuo modo di scherzare: il Dio in cui credevi contava tutti i capelli del capo, figurati se si era dimenticato di chi lo chiamava “babbino mio”.
“Vivo a lungo perché sono diventato un prete eretico. Per questo mi sento ancora giovane dentro”. Questa invece era molto più che una battuta. Solo che non definiva tanto la durata della tua vita, quanto la sua qualità: era stato l’incontro con una fede post-conciliare più aperta e libera, e con testimoni che spesso erano stati messi all’indice per averla profeticamente annunciata, che ti aveva consegnato una infinita freschezza d’animo.

Se c’era un motivo per cui accettavi quella vita che da tempo aveva superato il secolo era proprio perché così potevi continuare a trasmettere il Vangelo della gioia, la fede in un Dio che non ci minaccia, ma ci ama, che non divide l’umanità in buoni e cattivi e il suo regno tra Inferno e Paradiso, ma che chiede a ciascuno di fiorire nella sua umanità.
“Se ha un motivo il mio vivere – dicevi – è per continuare a piantare il seme della chiesa che verrà; io non la vedrò realizzata, ma voglio contribuire fino alla fine ad alimentarla”.

Caro Renzo,
ti avevo conosciuto da pochi anni, ma sono bastati per poter assaporare il nettare prezioso del tuo stile, delle idee rivoluzionarie con le quali non volevi convincere nessuno, ma che introducevano spazi inediti, potenzialità nuove. Che erano, in una parola, rivitalizzanti.

Carlo Molari, un grande amico teologo, diceva che spesso la profezia abita nelle periferie. Chi poteva sospettare che un semplice parroco di paese potesse ospitare tutta quella saggezza, tutta quella capacità di guardare oltre, tutta quella voglia di sperimentare il cristianesimo in tutto il suo messaggio, come diceva padre Vannucci, “di sconvolgente liberazione”? Eppure era così.
E quando venivo a trovarti per me era sempre un abbeverarmi a una fonte ricchissima, a un uomo che sapeva tenere insieme in maniera meravigliosa le idee e la vita.

Nel descrivere il tuo vivere non basta dire che eri un uomo sereno. Di più. Eri un uomo gioioso. La gioia era un frutto sempre maturo nel tuo esistere, lo dispensavi a chiunque ti venisse a trovare.
“Ha detto un grande scrittore che un cristiano triste è un triste cristiano” osservavi.
Ti piaceva stare con le persone, lo si capiva bene. Ma non temevi la solitudine: “Anche quando sono solo – dicevi – io non sono mai solo. Mi rivolgo al mio Dio, che chiamo babbo, resto in contatto con lui. E sono nella pace”.

Ho contribuito volentieri a diffondere le tue “eresie” e, senza poterti chiedere un permesso (me lo accorderesti di sicuro) lo farò ancora.
Non dimenticherò mai due incontri pubblici condivisi con te. Il primo a Bibbiena alla Fondazione Baracchi. Quel giorno eri incontenibile: mettesti in un’ora e mezzo tirata il senso profondo di tutte le tue convinzioni di fede. Eri un fiume in piena. In macchina, al ritorno, sospirasti felice: “Oggi le ho proprio dette tutte”.
Non ti eri filtrato, non ti eri moderato: avevi liberato la tua fede nella sua pienezza. Ed eri stato un dono per chi ti aveva potuto ascoltare.

Il secondo incontro a Romena è stato la tua ultima conferenza pubblica fuori dalla tua San Casciano.
Intervenisti dopo che Simone Cristicchi aveva declamato l’ultimo canto del Paradiso di Dante. Era un assist perfetto. Le tue parole, in semplicità, mantennero alto quel volo:
“Ricordate le parole con cui Gesù inizia la sua missione? “Il tempo è compiuto”, cioè a dire è finito il tempo in cui gli uomini devono credere a un Dio potente che condanna e manda all’inferno. Il suo è un Dio vicino, è talmente vicino a te che non c’è bisogno di un tempio o di una chiesa, è nel tuo cuore, la tua anima è il suo tabernacolo vivente. E’ un Dio che
addirittura mi dice: “Ma io sono il tuo babbo, io ti chiamo figlio perché ti ho creato a mia immagine e somiglianza. E ti mando il mio figlio prediletto che ti insegnerà la strada per innamorarmi di me”. Gesù, che meraviglia! Fratelli quanto lo amo!”
Alla fine la gente fece la fila per abbracciarti. Ero fiero di aver propiziato quel momento.
Lo fui meno all’indomani quando seppi che, a sera, cadendo incidentalmente in casa, ti eri fratturato una spalla. Cominciava da lì quel piano inclinato su cui hai cominciato lentamente a scivolare.

Anche in quest’ultimo periodo, comunque, la tua profezia non si è fermata. Hai consentito ai tuoi ragazzi e alle tue ragazze, tutti lo erano anagraficamente rispetto a te, di restituirti in assistenza almeno una parte di ciò che avevano ricevuto in cammino di vita.
Fino all’ultimo incontro mi hai aiutato, con discrezione ma puntando sempre in profondità, ad aprire nuove domande. “Io – dicevi spesso citando il cardinale Martini – non divido i cristiani tra buoni e cattivi ma tra chi pensa e chi non pensa”.
Perché questo è il compito di un vero maestro spirituale: tenere accesa la luce della scoperta, indirizzare verso nuovi orizzonti, contribuire a non fermarsi mai nel cammino di ricerca.

Mi mancherai Renzo. Sei meravigliosamente insostituibile.
Ma è anche vero che ti porterò sempre con me.
Hai dato tanto valore ai miei tentativi di far conoscere il tuo percorso a un pubblico più vasto.
Ma ciò che hai fatto per me vale molto di più. E’ una scintilla accesa che mi accompagnerà sempre.
Non so quanti dei tuoi semi continueranno ad attecchire
Il tuo, dentro di me, è già germoglio.

Ti voglio bene,
amico mio.

Massimo