20 anni fa, esattamente il 25 luglio 2003, ci lasciava Giovanni Abignente, uno dei fondatori della nostra esperienza. Psicologo, Giovanni ci ha aiutato tantissimo a mettere le basi alla nostra esperienza. Nell’ultimo numero della nostra rivista, dal titolo “Sperare insieme”, gli ho dedicato questo articolo pensando a questa ricorrenza.
“Che direbbe Giovanni?” Questa domanda arriva sempre quando c’è un momento di smarrimento, una sospensione, una complessità irrisolta nel cammino di Romena. Non è un caso: sono i momenti in cui lui ci manca di più.
Giovanni Abignente è stato, e sarà sempre, il nostro fratello maggiore. Se ne parlo non è semplicemente per ricordare che il prossimo 25 luglio saranno passati 20 anni dalla sua prematura scomparsa, ma perché credo che possa essere proprio lui la persona giusta per introdurre questo tema: “Sperare insieme”.
“Che direbbe Giovanni?” L’interlocutore di questa domanda è Maria Teresa, sua moglie e nostra specialissima collaboratrice. Di solito lei, nelle pieghe del suo rapporto intimo con lui, sa anche trovare una possibile risposta. Ma in ogni caso evocare Giovanni ci fa bene, è un fuoco caldo cui ci scaldiamo volentieri; e pensare al suo sguardo calmo, ai suoi occhi azzurri, pieni di infinito, è già un modo per smorzare l’ansia di ogni domanda.
Giovanni era uno psicologo. Si era trasferito con la famiglia da Napoli in Casentino proprio quando cominciava l’avventura di Romena. Il nostro don Luigi lo aveva cercato un secondo dopo averlo conosciuto, e lui si era lasciato trovare volentieri.
Giovanni non veniva a Romena per praticare il suo mestiere, ma ciò che, del suo mestiere, lo aveva affascinato sin da ragazzo: la consa- pevolezza che ciò che conta, nel vivere, sono le relazioni.
“La vita è l’arte dell’incontro”, era la frase di Vinicius De Moraes che spesso citava: il suo programma di vita.
Credo che Romena lo avesse affascinato da subito proprio per questo: era un luogo dove le persone, mettendosi a nudo rispetto all’i- nessenziale, scoprivano qual era la prima fonte del loro disagio e, allo stesso tempo, la potenziale chiave della loro rigenerazione: i rapporti umani, quelli con la famiglia, con gli affetti più intimi, con il compagno o la com- pagna di vita, con gli amici.
Era una verità in fondo semplice, ma non scontata, e dava senso a quello che lui face- va ogni giorno per professione e per passione: ascoltare.
Oltre a collaborare in tante nostre attività, Giovanni aveva offerto, a chiunque dei viandanti di Romena ne sentisse il bisogno, con estrema discrezione, la possibilità di compiere un cammino di analisi, in piena gratuità.
Per un breve periodo anch’io utilizzai quell’opportunità: Giovanni mi anticipò che, in quanto amici, sarebbero state solo conversazioni in libertà. In realtà quella breve esperienza mi permise di sperimentare a fondo il suo dono: Giovanni, con l’ascolto, permetteva alle persone di incontrare sé stesse, di trovare da sole se non le soluzioni, almeno le strade per andarsele a cercare. Era un ascolto vivo, illuminato, caldo, il suo.
Poco tempo prima di lasciarci mise alle stam- pe un libro, “Le radici e le ali”, di cui andava fiero: ci aveva messo dentro tutte le possibili dinamiche relazionali, senza offrire mai soluzioni, ma mostrando quante potenzialità ci fossero nell’essere umano che accetta la sfida del confronto con l’altro.
Forse ora capite perché Giovanni evoca così bene l’espressione “Sperare insieme”. Perché d’istinto l’attenzione si poggia sulla parola sperare, e invece il perno di questa espres- sione è la parola che segue: insieme. La speranza non è mai figlia di una progettualità individuale, alla lunga così diventa qualcosa di freddo e narcisistico.
La speranza attecchisce solo sui terreni fertilizzati dall’incontro tra le persone, quando si accoglie insieme il fascino e la fatica della diversità.
Giovanni aveva questa grandezza: vedeva la crescita di un’esperienza come quella di Ro- mena, e non l’avrebbe mai frenata, ma allo stesso tempo ci richiamava a non dimenti- care mai che nessuna crescita ‘vera’ poteva esserci se si fossero trascurate le relazioni umane.
La speranza, infatti, non si alimenta guar- dando avanti, ma intorno a sé: il suo car- burante sono gli incontri e ciò che possono sprigionare.
Pensiamoci. Nei momenti di titubanza o di fatica ciò che ci fa ripartire non è il pensa- re a ciò che possiamo trovare all’orizzonte, perché in quel momento l’orizzonte non lo vediamo. Se invece ripensiamo a un’emozio- ne vissuta con qualcuno, se ritroviamo uno sguardo che ci ha toccato, o se lo rendiamo presente ora, magari cercando un amico, un affetto, o partecipando a un momento di condivisione, allora è più facile che torni a scorrere la linfa che mancava. E che anche l’orizzonte riprenda forma.
“Insieme”. È una parola che pronunciamo senza sottolinearla, quasi fosse un’appendice scontata. Invece è il motore di tutto. È ciò che esprime la bellezza e il valore di tutto.
“Insieme”. Giovanni avrebbe risposto così.
Massimo Orlandi