In questi giorni sta arrivando in tante case il numero 2 del nostro Giornalino. Come sapete da luglio, la rivista di Romena resta disponibile per tutti nella versione online mentre viene spedita a casa nella versione cartacea a chi si iscrive utilizzando varie modalità (in questa pagina trovate tutte le indicazioni) e ci fa avere una piccola offerta per coprire le spese di stampa e spedizione.
Nel secondo numero di questa nuova versione (il giornalino esiste da venti anni) il tema scelto è Così come sei.
Qui sotto trovate l’articolo di Prima pagina con cui provo a presentare questo tema. Ma nel giornalino troverete tante altre cose: una lunga intervista al nostro Pier Luigi Ricci, gli editoriali di don Luigi Verdi, Marina Marcolini e Maria Teresa Abignente, il racconto degli incontri con Simone Cristicchi, Simona Atzori e Chiara Scardicchio, un contributo di Pupi Avati e tanto altro ancora.
Il giornalino prova a distillare i frutti più preziosi della nostra attività ed esce al ritmo delle stagioni per accompagnare il cammino di ognuno di noi. Vi invito ad avvicinarvi e a sostenerlo come avete sempre fatto.
Così come sei
Che mestiere fa il vostro babbo? “Fa il vigile del fuoco”, “È un muratore”, “Ha un ristorante”. Si succedevano così le risposte. Fin quando non toccò a mia figlia Elisa. E il tuo? “Io – esordì convinta e sorridente – io al mio babbo gli voglio tanto bene”.
La maestra d’asilo mi fermò la sera stessa per raccontarmi il tenerissimo episodio.
Elisa, 4 anni allora, aveva affidato al suo entusiasmo bambino una risposta del cuore che scavalcava la domanda.
Per lei non contava quello che io facevo, ma ciò che sentiva per me.
“Così come sei”. Abbiamo ricominciato il cammino del nostro giornalino dalla parola “accogliere”, la prima del vocabolario di Romena. Lo continuiamo mettendo al centro l’atmosfera che deve sgorgare da quella parola: quella che ci mette nelle condizioni di muoverci senza l’armatura di un ruolo, nella libertà naturale di far sgorgare ciò che ci viene dal cuore. Di solito non è così. Questa società dei non-luoghi pro- duce miriadi di spazi di comunicazione nei quali si nascondono pluralità di solitudini. Domande-salvagente, tipo “Come stai?” “Cosa fai?”, non sciolgono il ghiaccio ma lo riproducono alimentando il disagio di non avere nulla di speciale da dire o da dare. Negli spazi virtuali poi trionfa uno schiamazzo sguaiato, un modo becero di auto-affermarsi senza dire niente di sé.
Davanti a questo continuo naufragio delle nostre identità diventa preziosa l’esistenza di zattere su cui salire per intuire che esiste un ‘nostro’ posto nel mondo. La Fraternità di Romena, nel suo piccolo, è nata per questo.
Ricordo che all’avvio della nostra esperienza il luogo comune dei benpensanti era questo: “Lassù ci vanno le persone che stanno male”. Ho sempre vissuto quella definizione come l’indicazione di una rotta: quando si sta male non si sa dove andare, ed era invece bello sapere che ora un posto c’era. Tutti ne eravamo potenziali fruitori, perché tutti nella vita avremmo sofferto per un disagio, una perdita, una malattia, un sogno infranto. In realtà Romena non era e non è liquidabile come un posto per le persone in crisi. Il suo tentativo di abbraccio è molto più largo. Di sicuro però chi ha sentito il bisogno di venire fin qui per appoggiare le sue ferite ha contribuito in maniera decisiva a creare il clima che vi si respira. Chi, in questi 25 anni, ci ha offerto le sua fragilità, ha infatti dato una casa anche alle nostre. Il passaggio a Romena di chi più è stato messo a nudo dalla vita è infatti la sorgente di quell’atmosfera calda, viva, nella quale ciascuno di noi ha sentito, almeno in un momento, di poter liberare le sue emozioni profonde, quelle che ci riconnettono alla nostra identità.
È un dono di umanità immenso. Anche perché quando ritroviamo un contatto con noi stessi, quando ‘esistiamo’, ci avviciniamo agli altri e sentiamo che gli altri si avvicinano a noi. È in quei momenti che l’espressione “ti voglio bene” riconquista tutto il suo valore.
Aveva ragione Elisa. La sua risposta metteva al centro ciò che conta di più: le nostre relazioni. “Ti voglio bene” ci dice chi siamo. E chi sono gli altri per noi.