
Eravamo a tavola, uno davanti all’altro, in uno dei primi nostri incontri. A fine pasto non persi l’occasione di fargli la domanda delle domande: Arturo, come ti immagini che sarà, dopo la morte?
“Vedi – rispose allargando ancor più la fronte spaziosa – oggi pomeriggio un caro amico mi accompagnerà a fare una passeggiata. Io non sto mica a chiedergli dove andremo, non sto mica a farmi spiegare cosa troverò. Così penso all’incontro con Dio. E’ un amico. E io mi fido di lui”.
Alle prime ore di oggi, 13 luglio 2015, la passeggiata ha avuto inizio. L’Amico lo sta tenendo per mano. E se è un Amico, vuoi che lo porti in un posto brutto? Vuoi che lo faccia star male?
Arturo, caro amico Arturo. Arturo che non aveva paura della morte, ma la attendeva, sazio dei suoi giorni, Arturo che non aveva passato la vita a riempirsi di Dio, ma a svuotarsi di ‘io’ per poterlo accogliere. Arturo, la cui fede era promettente come la luce dell’alba.
“E’ tutto finito” gli disse un suo antico allievo in punto di morte. E Arturo, di risposta, lo sbatacchiò: “Non è questo che ti ho insegnato! Non è vero che è tutto finito. Ma che tutto inizia”.
Arturo non aveva paura di morire perché sentiva che su tutto, tutto ciò che ci circonda soffia il vento dello Spirito e che questo vento non si muove a caso: lo spinge l’Amore, con la A maiuscola.
“L’unica missione umana – diceva – sta tutta in una espressione di Teillhard de Chardin: “amouriseur le monde”, portare l’amore nel mondo. Gesù non ci ha chiesto di fare proseliti, ci ha chiesto di portare l’amore nel mondo”. E in questo consisteva, per lui, la sua missione di uomo di Dio, di uomo consacrato a Dio: “La cosa più grande che può dare un prete? È far sentire la persona amata. Perché se Dio è Amore, Dio non si scopre attraverso un ragionamento teologico, lo si scopre solo se ci si sente amati”.
Un proverbio africano dice che un vecchio che muore equivale a una biblioteca che brucia. Ci ho pensato spesso davanti a anziani che avrebbero avuto un mondo di cose da rivelarci, se fossimo stati umili e attenti da ascoltarli prima della loro morte. Arturo, grazie al suo tempo di vita in esubero, ha permesso a tanti di noi di avvicinarlo e di scorrere senza fretta i titoli della sua biblioteca, la biblioteca della vita.
Io, in particolare, ricordo una indimenticabile settimana a Spello: Arturo mi concesse due ore tutte le mattine per raccontarmi tanta parte della sua vita e permettermi di ritrasmetterla. Ne nacque un piccolo libro, “La forza della leggerezza” i cui contenuti, oltrechè su carta, me li sono stampati dentro.
“Mi piace stare al mondo, anche ora che sono vecchio” esordiva Arturo con la sua disarmante semplicità. “Quello che rende bella la vita è il non portare fardelli. Non ti posso dire che la mia vita sia stata tutta buona, no, però ti posso dire che la mia vita è stata bella: anche gli aspetti negativi, anche le avversità sono state importanti, perché mi hanno aiutato ad avanzare, a vedere di più, a liberarmi da tante pesantezze”.
La leggerezza di Arturo non era dovuta alla assenza di fatica e di sofferenza, ma alla capacità di elaborarla. Era il frutto maturo di una capacità totale di darsi agli altri al punto da dimenticarsi di sè: l’angoscia esistenziale di noi occidentali, spiegava, scompare davanti al povero che è privo di tutto, che è umiliato, che chiede solo un po’ di dignità.
Infine Arturo aveva un dono peculiare, rarissimo: sapeva essere un vecchio saggio e un bambino pieno di stupore insieme. In lui le estremità della vita si toccavano, con naturalezza.
L’ultima volta che l’ho visto è stato un mese fa. Le sue parole si erano fatte rade. Parlava per lui il suo sorriso lieve, e quello sguardo proteso sull’orizzonte, a saggiare l’infinito.
Dissi qualcosa io, allora, ma poco, e tutte le parole volevano essere solo una: grazie.
Era un consapevole commiato. Era un affettuoso arrivederci.
Sapevo che sarebbe arrivata, prima o poi, la telefonata di stamani.
La fine di una vita. L’inizio di una passeggiata.