di Massimo Orlandi
Era un monaco, un artista, un saggio. Ha contribuito a far nascere Romena. La sua eredità ci è ancora davanti. Per questo proviamo a farvelo incontrare anche attraverso il nuovo libro di Luigi Verdi.
Era l’uomo del fuoco. Non c’è passaggio di vita, diceva, in cui non serva attraversare la sua fiamma, per poterci trasformare e crescere.
Era l’uomo dell’oro. Ne collocava una goccia nelle fratture delle icone: “Troppo preziose sono le ferite”.
L’anziano monaco riempiva il minuscolo eremo di casa Bocci del suo stupore. Era lo stupore della vita nei suoi nonnulla, lo stupore di una minuscola scoperta, lo stupore del creare e del creato. “Siediti, guarda, cosa vedi in questa icona?”
A raccontarlo così sembra un abbozzo di seduta psicanalitica. Niente affatto. Giosuè usava la sua arte come canale d’incontro. Non inseguiva apprezzamenti, voleva che le traiettorie semplici delle sue opere diventassero occasione di dialogo, ponte tra visibile e invisibile. Uno spazio dell’anima. Succedeva così che tu entravi in quella minuscola cella e dopo poco ti ascoltavi parlare. E Giosuè era lì per te, solo per te, eri tutto il mondo nel suo sguardo. Il primo ad accorgersi del valore immenso e silenzioso di quell’uomo e del suo pensiero era stato il nostro don Luigi. Dentro il vecchio porcile trasformato in minuscolo eremo Giosuè aveva compiuto un gesto inatteso. Aveva preso nelle mani le sue mani, sì proprio quelle mani imperfette, le aveva prese e accarezzate con cura accompagnandole con il vento di una citazione: “Ricorda che la pietra scartata è diventata testata d’angolo”.
Gigi era allora un giovane prete inquieto che aveva appena trovato riparo a Romena. Nessuno aveva mai accarezzato la sua ferita. Nessuno gliela aveva riconsegnata dicendo che quella era, in realtà, la pietra su cui avrebbe appoggiato la sua vita. Quando guardo le icone collocate nei vari spazi della fattoria di Romena, quando mi emoziono per quel linguaggio semplice, antico, per la nuova vita di quegli oggetti abbandonati (materiali di scarto, vecchi arnesi contadini), è inevitabile pensare a don Luigi e alle sue mani diventate così abili nel creare, ma anche a quella mano sulla spalla, leggera come un carezza che si posò su di lui quel giorno, senza mai più lasciarlo. La mano di Giosuè.
Giosuè veniva da Zurigo. E quando entrò nella nostra vita, all’inizio degli anni Novanta, di vite ne aveva vissute parecchie. Da ragazzo aveva imparato l’arte orafa, e aveva anche cominciato a metterla in pratica, ma poi il richiamo della fede lo aveva condotto altrove: aveva studiato teologia per poi diventare pastore della chiesa luterana. Marito di Ann, padre di tre figli, ministro di fede in 5 diverse comunità, alla fine degli anni sessanta era entrato in una crisi profonda: era una crisi legata alla rigidità delle forme della chiesa con cui contrastava la sua visione larga, aperta, ma anche al bisogno di rimettere in discussione la sua personale dimensione religiosa. Era entrato in una dolorosissima fase di trasformazione iniziata in Svizzera, proseguita in Italia, dove era stato richiamato dalla lezione di umiltà e di semplicità di San Francesco. L’esito della sua crisi era stata, come per San Francesco, la decisione di lasciare tutto, di spogliarsi della sua vita, cercando le tracce di una vita nuova, in cui riconoscersi.
Il suo percorso era iniziato a Collepino, vicino Assisi, poi a Camaldoli, ospite dei monaci. Con loro, aveva potuto finalmente vivere quella dimensione ecumenica che non gli era stato possibile sperimentare in Svizzera, con loro aveva anche riscoperto quello spazio di manualità che aveva abbandonato dopo aver deciso di lasciare il mestiere di orafo. Aveva ricominciato a lavorare l’oro, questa volta per realizzare icone nelle quali esprimere l’inesprimibile della sua fede. In quella nuova fase della sua vita il lavoro manuale, la meditazione, la preghiera erano l’essenza dei suoi bisogni, e ora poteva vivere queste realtà tutte insieme, armoniosamente. A pochi chilometri da Camaldoli, vicino a Soci, Giosuè era riuscito a fare un passo ulteriore: ridurre le sue esigenze vitali a un minuscolo spazio, una piccola cella, con un angolo per mangiare, uno spazio per lavorare, un pezzo di juta dove sedersi e pregare accogliendo la luce. L’universo in un piccolo spazio.
In quella cella era entrato, come detto, don Luigi, e, più o meno nello stesso periodo, inizio anni Novanta, anche Wolfgang Fasser. Due persone, con le loro imperfezioni: il primo con le sue mani e le caviglie irregolari (“Sono così, gli avevo detto, dopo sette operazioni per separarle, perché alla nascita erano appiccicate insieme”), il secondo non vedente all’età di vent’anni, per una retinite pigmentosa. A entrambi Giosuè aveva mostrato come imperscrutabilmente la loro forza risiedesse proprio nelle loro ferite. “Metto sempre una goccia d’oro nelle fratture delle pietre – spiegava raccontando le sue icone – sono troppo preziose le ferite”. Nelle sue opere l’oro era il segno divino che entra nella storia dell’uomo per accompagnarlo, per creare con lui, ma anche per piangere con lui.
L’oro nella ferita rappresentava quindi il segno che nessuno era solo, nel profondo della sua fatica: “Quando si è in un momento di crisi, sapere che qualcuno soffre con noi è già una prima resurrezione” diceva. Ma quel punto di fragilità, quella ferita aveva anche un altro significato: indicava che quel punto di crisi poteva essere anche un punto di svolta: “Ogni crisi, ogni difficoltà – diceva Giosuè – è un richiamo verso l’autenticità della nostra vita, è una spinta a crescere per diventare ciò che un giorno saremo: icona di Dio”.
Nella sua seconda stagione di orafo, Giosuè aveva scelto di fare ciò che nessun orafo avrebbe fatto: contaminare l’oro con oggetti poveri del quotidiano, passarlo nel fuoco con metalli non nobili come il rame perché questi ultimi potessero profittare della sua luce. “Il povero ottone e il povero rame – raccontava – hanno ricevuto un bellissimo colore unendosi con l’oro. L’oro perde il suo valore per amore della cosa meno preziosa. La stessa cosa fa Dio: lascia il suo prezzo e si amalgama, si unisce nel fuoco dell’amore con l’uomo e la donna senza pensare al suo valore divino. Lascia e cerca di creare qualcosa con il divino e con l’umano, qualcosa di nuovo”. A Romena, negli anni dei nostri inizi, cogliemmo i frutti della sua maturità. Giosuè entrava nei primi abbozzi dei nostri percorsi con presenza rispettosa ma saggia, con un entusiasmo bambino, con uno stupore d’incontro indimenticabile. Giosuè ci insegnava ad accorgerci. Ad accorgerci di tutto. Di un fiore cresciuto sul fianco della strada, di un ciottolo levigato dall’acqua del fiume, di una vecchia tegola lavorata dalla muffa e dal tempo: in lui, che per anni si era battuto per una visione più ecumenica, la fede aveva spezzato ogni limite: “Io – diceva – cerco il nuovo volto della fede, non più dottrina”, la sua fede era in un Dio che cammina con l’uomo, un Dio che “non è onnipotente, ma tuttabbracciante”.
Nel 1993 Giosuè decise che era tempo di tornare in Svizzera. Ancora una volta lo aiutò in questa scelta il linguaggio dei simboli. “La dimensione che ho vissuto qui, in Toscana, mettendo insieme lavoro e meditazione, mi ha reso completo. Ma la malattia all’intestino, che mi è venuta, mi dice che non riesco più a digerire questa dimensione di vita. Che devo andare oltre”. Giosuè si sapeva separare dalle sue vite, conservando l’insegnamento che ne aveva ricevuto. Lasciò il suo laboratorio di icone a Gigi, il suo bastone e il suo zaino a Wolfgang. In Svizzera ricominciò a scrivere poesie. Poi accettò il suo farsi vecchio, fino a morire, nel 2012, a novant’anni. Giosuè aveva uno spessore umano e spirituale che le nostre energie fresche e giovani di 25 anni fa non potevano comprendere fino in fondo. Per questo, dobbiamo in fondo ancora conoscerlo. È la strada dei profeti: li abbiamo ascoltati, un tempo, ma il senso delle loro parole e del loro cammino, ci attende. Così con Giosuè l’incontro, ne siamo certi, è appena iniziato.
Tratto dalla rivista di Romena, n. 6/2017 Oro nelle ferite
In libreria e online

“A ogni svolta della mia vita ho sempre trovato qualcuno a cui Gesù ha prestato la voce per potermi parlare.
Giosuè mi ha indicato il tutto nel frammento, il frammento nel tutto e l’oro nelle ferite.
I brani che leggerete in questo libro sono dei frammenti di stupore del suo piccolo, ma universale mondo, nati da incontri, silenzi, attenzioni e sguardi di ogni giorno, pagando di cuore ogni sua parola”.