10 anni fa, il 22 gennaio del 2007, ci lasciava l’Abbé Pierre. Era in pace e sazio di giorni (aveva quasi 95 anni), ma continuava ad avere sete di giustizia: fino all’ultimo aveva destinato tutte le sue energie alla battaglia contro le ingiustizie sociali, per sostenere il bisogno di dignità che è comune a ogni essere umano.
Luigi Ciotti, che più gli assomiglia, lo definì “un polmone di Dio”: perché faceva risuonare nei fatti il messaggio del Vangelo, perché era costantemente al fianco dei poveri, ma anche pronto a alzare la voce contro quelli che definiva “i farabutti perbene”.
Era amico di Romena, cui aveva regalato “Foglie sparse” l’unico libro di poesie scritto nella sua lunga vita. Ed è a partire dal ricordi dei tempi, era il 2003, in cui pubblicammo quel libro, che vorrei ricordarlo…
Quanto tempo può dedicarci padre? Ce qu’il faut, rispondesti. Quanto ne occorre. Ricordo la tua piccola stanza, nella periferia di Parigi, il tuo viso infuocato di passione in quel corpicino sempre più provato, sempre più stanco.
Quanto ne occorre. Mi sono rimaste addosso quelle parole, perché le energie erano poche, ma quel mattino le regalasti tutte a noi.
La conversazione finì perché non ce la facevi più. Ricordo che mi trascinai per tutto il giorno il pensiero di aver preteso troppo. Ma guai a darti per finito Abbé.
L’anno dopo tornasti in Toscana, venisti a Romena e ce la facemmo a consegnarti il tuo libro, “Foglie sparse” e ad abbracciarti ancora, tutti insieme.
Avevi novant’anni e nessuna paura di morire. “La morte – dicevi – è semplicemente l’incontro, a lungo ritardato, con un amico”.
Le tue parole più belle, però, le avevi pronunciate sulla vita: “La vita è un minuzzolo di tempo concesso alla nostra libertà per imparare ad amare”.
Eri un uomo innervato di fede, una fede nervosa che ti faceva vibrare e scattare, una fede viva, che ti incendiava lo sguardo. Eri un uomo che stava sui cigli delle strade, sulle frontiere di ogni bisogno, un uomo che si definiva cristiano semplicemente per questo, perché non c’era affronto alla dignità umana a cui tu non volessi reagire.
Migranti, poveri, carcerati erano la tua gente, la tua famiglia. E geniale era stato il tuo modo di aiutarli: loro, rifiuti della società, raccoglievano ciò che, al pari di loro stessi, la società opulenta gettava via, lo recuperavano e lo rivendevano. Un guadagno legittimo, una dignità ritrovata, una vita che ripartiva. Questo è il miracolo di Emmaus, un miracolo ripetuto migliaia di volte, un miracolo che accade ancora oggi, nelle centinaia di comunità che tu hai ispirato, molte di queste vicine a noi.
In Francia erano tutti innamorati di te, in Italia la memoria pubblica non rende ancora merito al valore del tuo messaggio. Per questo dieci anni dopo la tua morte, tanta strada resta da fare. Specie se conoscerti equivale a battere le tue strade, a indignarci per gli stessi motivi, ad avere lo stesso sguardo innamorato verso il debole e intransigente con il potente.
Scorro tra le mani le pagine di quel libriccino che ci permise di incontrarci a Parigi. Era stato il caro amico Antonio Salis, che tu conoscevi da una vita, a ritrovare quelle poesie tra le carte di Emmaus. Le avevi scritte in un rigido inverno, nel 1955, al termine di lunghissime giornate passate ad aiutare chi rischiava di morire dal freddo. “Non erano versi – ci dicesti – erano piuttosto un grido, un’esplosione di passione e di collera rispetto alle ingiustizie cui assistevo ogni giorno”.
Le riproducemmo con il tuo testo originale a fronte, immaginandoti solo, nella tua stanza, a far urlare l’inchiostro dei tuoi versi.
Questi dieci anni non sono un compleanno. Sono solo un’occasione. Per ripensare alla tua fede concreta, alla tua straripante energia, alle tue collere d’amore.
Per rileggere, in silenzio, quelle parole urlate alla notte 60 anni fa. Le stesse parole di tante notti della nostra umanità.
Quando soffri
ama più forte.
Ama quelli
che sono più in lacrime
di te
più al freddo
con più fame
e più soli in se stessi,
e quasi più inesistenti
più assenti
a se stessi.
Non esiste
per te
altra gioia profonda
possibile.
Amali abbastanza
per farli essere
tutta la pienezza
di ciò che possono.
Ti faranno male,
amali di più.