La sera di Pasqua, in pieve, potremo incontrare due persone. Una santa, Caterina da Siena, e una contadina che sapeva improvvisare poesie, Beatrice di Pian degli Ontani. Le incontreremo davvero, cuore a cuore, sapremo delle loro vite e di quale sia il sottile legame che le unisce. Ci sentiremo dentro il loro stesso cammino, emozionati e coinvolti. E’ questo che accade con gli spettacoli di Elisabetta Salvatori. Elisabetta ha un talento speciale: trasforma ogni spazio in una casa, una casa accogliente, e in quella casa, come nelle vecchie veglie, lei racconta storie. Le racconta pescandole dal fondo dell’anima, così le rende vive, autentiche, coinvolgenti. Insieme a lei Matteo Ceramelli scrive col suo violino scrive le note dell’emozione. E’ una serata speciale quella che ci attende domani sera, alle 21 in pieve (ingresso libero) grazie allo stile di Elisabetta. A lei ho dedicato un piccolo intervento che vi propongo…
“Il teatro è la mia casa”
Questo testo è stato scritto per presentare la conversazione con Elisabetta che sarà inserita nel libro “A regola d’arte” in uscita a maggio per le Edizioni Romena. Il libro racconterà gli incontri del ciclo “Le parole è il silenzio”. Uno di questi, al teatro Dovizi di Bibbiena, ha avuto per protagonista proprio Elisabetta…
Se bussi alla porta di casa sua a sera, quello è sipario. Se ti siedi in un angolo del suo salotto, quello è platea. Se senti il respiro delle persone di cui ascolti la storia, questo è il teatro di Elisabetta Salvatori.
Nessuna metafora. La casa è quella della bisnonna a Forte dei Marmi, nel salotto Elisabetta ha rinunciato a divani e tavoli per allestire una pedana con cinquanta sedie e una piccola gradinata. Da lì ogni settimana parte un passaparola che diventa un poche ore un tutto esaurito. Uno spettacolo? Non è giusto chiamarlo così. Uno spettacolo rompe gli schemi ordinari, porta lo spettatore in un mondo altro, un mondo che si apre e si chiude: il sipario serve a questo. Elisabetta fa altro: con i suoi racconti porta in scena la vita, la vita vera, e la vita vera non è una parentesi, non conosce un prima e un dopo. Fa parte del tutto. Elisabetta non si cambia d’abito, non accende le luci, guarda negli occhi i suoi spettatori uno per uno. E da loro si lascia guardare.
“Per me – dice – fare teatro vuol dire accorciare una distanza, io se posso allungo un dito e tocco lo spettatore. All’inizio è leggermente imbarazzante, ma superato l’impatto questa vicinanza, sguardo negli sguardi diventa qualcosa di più caldo, di più emozionante”.
Avete presenti le vecchie veglie nelle case contadine? Esattamente così.
L’inizio è solo un silenzio rarefatto, un’attesa curiosa. Il racconto comincia lento, apparentemente insignificante, ma è proprio così, dal quotidiano della vita che sbocciano le persone con i loro segreti, con i loro talenti, con i loro cammini, spesso controvento.
Quella storia era lontana, forse sconosciuta, e Elisabetta, Elisabetta senza abito da scena, niente effetti, magicamente le soffia dentro la vita, la vita di ora. “Io – spiega – sono una portavoce, non un’attrice, sono una che che prende le storie e le racconta. Non uso costumi, solo una scenografia minima, c’è un niente, quel niente è la storia, se manca quella non ho più senso io su un palco”.
Quali storie, direte? Quelle di cui Elisabetta si innamora. E come avviene nell’amore non c’è, naturalmente, nessuna regola. Ci si può innamorare del genio folle di Antonio Ligabue come della poesia di Dino Campana, dell’umanità di Santa Caterina e della creatività di Beatrice di Pian degli Ontani, rimatrice analfabeta. Ci si può innamorare, una per una, delle storie semplici e nascoste, di chi andava a migrare per cercare un pezzo di pane, o di chi, come le vittime di sant’Anna di Stazzema, ha avuto il verso della vita stroncato dalla forza bruta della violenza. Di recente Elisabetta si è innamorata delle storie di 32 persone che, ignare, sono morte in una notte d’estate per lo scoppio di un treno, a Viareggio. Ma di loro, ha detto, non ho voluto raccontare la morte, ma la vita.
Storie, storie su storie. Quando una storia l’ha toccata Elisabetta le corre incontro, la cerca, indaga studia, divora libri, incontra persone, va a sentire il sapore dei luoghi da cui quella storia proviene. E’ come se svolgesse un reportage profondo, un’inchiesta dell’anima. E quando la storia è entrata in contatto con lei nella sua parte più misteriosa, allora Elisabetta comincia a scrivere, ed è dalla scrittura che emergono i primi lineamenti della storia, lo scheletro del racconto cui darà vita.
La sua casa diventa allora la stazione di partenza delle sue storie. Da lì cominciano un viaggio, entrano nei teatri, soprattutto si muovono verso i cuori.
E siccome le corde più profonde dell’animo umano sono sì sensibili alle parole, ma soprattutto quando le parole sono affiancate dalla musica, Elisabetta va in scena, sempre con Matteo Ceramelli, un musicista che si talmente sintonizzato con le atmosfere di Elisabetta da farsi tutt’uno attraverso le sue musiche, con il racconto di lei.
Parole, e un tocco sapiente di musica. C’è questo in ogni racconto di Elisabetta. Nulla più. “Ma in realtà – ha scritto di lei il critico teatrale Tommaso Chimenti – sul palco Elisabetta non è mai sola. Ha con sé, dentro, dietro, alle spalle tutte le anime che hanno vissuto e sono passate dentro i suoi racconti”.
Ed eccoci a noi, oggi. Per il nostro incontro a Bibbiena abbiamo chiesto a Elisabetta di portare con sé qualcuna delle storie che racconta, perché non si può parlare con lei e di lei senza aver fatto assaporare questa sua dimensione.
Una barbiera. Ha scelto la storia di una ragazza povera che si mette sulle strade del mondo portando con sé rasoio e forbici, strumenti di un mestiere che, casualmente, in casa sua, ha imparato. E’ una storia di povertà e di dignità, di amarezza e di riscatto. E’ una storia vera, come tutte quelle che Elisabetta racconta. E il fatto che sia vera si capisce, si sente da come ci si sente arrivare addosso il suo profumo, forse un’acqua di colonia, chissà se la barbiera di Forte dei Marmi la spalmava sul viso rasato dei suoi clienti.
Dopo quest’inizio il teatro Dovizi, che ci ospita, è già altra cosa. Ha svestito le sue ridondanze, è divenuto casa d’incontri. La casa di una veglia tra amici, la casa di Elisabetta.
Molte persone, tante donne, vorranno raccontarsi nel corso della serata, aggiungendo la loro memoria alla sua. Ricordi di atmosfere familiari, piccoli vissuti tenuti in ombra e cui Elisabetta ha offerto la dignità dell’essere riportati in vita dal ricordo
“Guardate – dice Elisabetta – che quello che stiamo facendo oggi, ciascuno di voi può farlo anche senza di me: basta andare a trovare il nonno, o il vicino di casa che ha fatto la guerra. Questo teatro, fatto di cose vere, è alla portata di tutti, parla a tutti”.
L’ultima perla, quella che concluderà questo pomeriggio, è dedicata ai bambini, o meglio alla parte bambina che c’è in ciascuno di noi. E’ una favola che Elisabetta racconta.
Anche oggi Elisabetta dedica molta attenzione ai bambini. Ha una valigia e quando la apre magicamente escono favole. Ha anche una sedia. Quella che prese con sé una volta, tanti anni fa e la mise al centro di una piazza di Forte dei marmi per sperimentare se stessa davanti ai bambini. Erano pochissimi il primo giorno, poi decine, poi sempre di più. Veri talent scout i bambini. Il loro messaggio a quella ragazza che li faceva sognare fu: “Vai avanti, questa è la tua strada”.
Quei bambini sconosciuti, oggi adulti, meritano un messaggio di riconoscenza.
Preferirono i suoi racconti ai giochi. Scelsero le sue storie al posto della Tv.
E dissero a lei, ma anche a noi, indirettamente, che ascoltare una storia può cambiare la nostra vita.