Domenica prossima le Lettere da Romena torneranno al punto di partenza, alla pieve luogo da cui sono state inviate. Non sarà una presentazione vera e propria, ma un’occasione per provare a mostrare quanta energia, quanta bellezza, quante potenzialità sprigionino quei luoghi che si affidano al vento imprevedibile degli incontri.
Di incontri sono fatte le lettere che ho scritto, incontri che mi hanno toccato, cambiato, aiutato a crescere. Incontri nei quali ognuno può, se vuole, ritrovarsi o confrontarsi.
Il libro contiene lettere distribuite nel corso di venti anni e pubblicate nel nostro giornalino nello spazio chiamato Prima pagina. Una di queste, invece, è inedita. Apre il libro, lo spiega, è una dedica allargata. Rappresenta ciò che di più alto e profondo può creare un incontro: una meravigliosa amicizia.
Mi piace condividerla con voi in questo spazio.
A Rita
Ogni vero vivere è incontrare
Martin Buber
“Come stai?” “Ora bene ma stanotte ho avuto febbre alta”. “Vuol dire che stasera non ci vediamo?” “No, vuol dire che ci vediamo prima. Se fa freddo poi rientriamo”.
Sono passate e corse via queste parole. Bastavano all’uso.
Le ho ritrovate solo dopo. Per benedirle.
Diceva che ero il suo fratellino. Dicevo che era la mia sorellina. Rita era un’amica. Cioè ancora di più.
Non ci eravamo trovati casualmente, ma scelti. Il nostro stare insieme non era erede di una spontaneità passata, ma figlio consapevole di un presente che si appoggiava solo su se stesso.
Sin dall’inizio Rita aveva abbattuto ogni barriera, l’autenticità era stata la sua unica condizione d’incontro. I primi tempi avevo vacillato, quasi stordito da quel suo essere sempre senza filtro, da quel suo mostrarsi forte oppure fragile semplicemente perché lo era.
Non ero scappato. E oggi ringrazio di essermi lasciato domare dalla sua naturalezza.
La notte è arrivata troppo presto. L’assedio era in atto, ma Rita sembrava una fortezza inespugnabile. Almeno ci aveva convinto che era così.
Chi ama è invulnerabile. E Rita, che si curava diligentemente, che sapeva soffrire pazientemente, in realtà aveva messo in atto il più meraviglioso e difficile modo di resistere alla precarietà della sua malattia: un amore aperto, generoso, smisurato verso la vita e le persone.
Voleva esserci ancora, non per compensazione o per paura dell’oltre: perché le piaceva, perché la bellezza della vita era sempre un gradino più in là di ogni fatica, perché non c’era un grigio o un nero sotto cui non fosse possibile trovare almeno una scia di verde, di rosso, di blu.
Ne aveva passate tante, Rita. Traumi affettivi, abbandoni, odissee di lavoro, prima del lento, vigliacco accerchiamento della malattia. Ma non si era mai appoggiata su queste ferite per usarle come alibi.
Si dice che la bellezza delicata di un ulivo sia dovuta al fatto che è la pianta più potata. Rita, che era d’animo combattivo e gagliardo, aveva imparato ad accettare le continue potature.
La sua bellezza era il frutto proprio della sua capacità di guardare oltre l’ennesimo ramo tagliato, affidandosi al bocciolo che, ne era certa, prima o poi sarebbe spuntato.
Tutto questo avrei potuto non scriverlo. La dedica poteva contenersi nel tradizionale spazio di una parola in calce al libro. A Rita.
Invece no. Perché di questo libro Rita non è solo la destinataria affettiva.
Subito dopo la sua scomparsa, sua figlia Claudia mi ha ricordato quanto Rita apprezzasse gli articoli che scrivevo per la rivista della fraternità di Romena. Ho colto quelle parole come un segno.
Rita era una sarta. E mi piace pensare che il filo invisibile in grado di tenere insieme quell’ordito di parole, scritte in tempi diversi, su temi disparati, fosse in mano sua. Che le sue mani abili potessero aiutarmi a cucire questo libro. Anche questo era un modo per sentirsi, ancora, vicini.
Quella sera, poi, ci siamo visti. E presto, come voleva lei. La mia famiglia, la sua. A cena fuori. A passeggiare. Tutto normale, nessuno spettro nell’aria. E non era freddo così abbiamo anche fatto tardi.
“Tempo fa hai lasciato il tuo ombrello in casa mia, salgo a prenderlo”. “No, Rita non importa, lo recupero la prossima volta. Buonanotte”.
Ci siamo salutati così. Non ricorderei tutto questo se non ci si fosse appoggiato sopra il passo successivo, che è arrivato appena due giorni dopo. Una vertigine improvvisa di male, di cui ho conosciuto solo l’epilogo, nella voce di Maurizio, il meraviglioso marito. “Rita non c’è più” .
Ancora, per la verità, rincorro il contenuto di quelle parole, cui il mio cuore non dà retta. A volte le riascolto per misurarle, e provo anzi a sbirciarmi sul vuoto che evocano: ma quel vuoto è irreale, Lei, non ci può essere finita dentro.
Sento altro, forse un’illusione, un vibrare di polline nell’aria, come se il suo corpo si fosse trasformato in una polvere che passa in ogni luogo e aiuta a germogliare.
“La vita è un minuzzolo di tempo concesso alla nostra libertà per imparare ad amare”. Scandisco lentamente queste parole dell’Abbé Pierre. Le vedo riflesse in ogni passo della vita di Rita.
E verso questa traiettoria di volo provo a puntare questo libro, e tutto ciò che contiene.