“Il consiglio che vi dò è quello di lasciare sempre un vetro rotto nella vostra comunità: se si lasciano vedere le proprie ferite, le proprie incompiutezze, i propri vetri rotti, è più facile che una persona che cerca aiuto senta di potersi fermare”. Trovo queste parole dell’Abbè Pierre in un’intervista che gli feci per il libro Foglie sparse. Le dedico a questo giorno storico per la Chiesa: il primo giorno in cui un Papa sceglie di mettersi da parte e si consegna al silenzio.
Cosa vuol dire “lasciare un vetro rotto”? Che non nascondiamo nulla, nemmeno le nostre imperfezioni; se presentiamo la nostra casa, la nostra comunità con un vetro rotto è perché accettiamo di mostrarci per quello che siamo, anche per ciò che di noi non ci piace.
Per Papa Benedetto deve essere durissimo sentire il peso di un simile, storico cambiamento su di sè. Ma allo stesso tempo le sue dimissioni mettono la chiesa nelle condizioni, finalmente, di mostrare chiaramente quel vetro rotto.
Non può sfuggire quanto questo suo gesto di umiltà abbia già fatto bene alla chiesa. Ma quel gesto serve solo se costituirà l’avvio di un faticoso, scomodo ma necessario cammino nel segno della trasparenza e del cambiamento. Solo così potrà essere coltivata la speranza di una rigenerazione.
Per questo cammino è certamente di aiuto ascoltare le parole scomode, ma importanti di figure come l‘Abbè Pierre. Parole forti, che scuotono: l’Abbè non ha mai avuto peli sulla lingua, su nessun argomento.
Era il febbraio del 2003. Insieme ad alcuni amici di Romena eravamo nella piccola stanza dove viveva alla periferia di Parigi. L’Abbè era già molto anziano, aveva poche energie, ma quelle che aveva quel mattino le mise tutte sul tavolo dell’incontro. Ascoltiamolo.
I movimenti di oggi (era il periodo in cui avevano grande forza i movimenti antiglobalizzazione e i social forum n.d.r.) sono collegati in una rete mondiale. Questo non insegna qualcosa anche alla Chiesa che troppo spesso si muove non in orizzontale, ma in verticale?
E’ vero, bisogna essere realisti. Io sono infelice vedendo che spesso la Chiesa nella solennità esterna si assimila ai ricchi: la mitria dei vescovi, oggi, è ridicola. Gesù non si è mai messo un costume per assomigliare a Erode o ai principi del sinedrio. Eppure, sotto questa vernice superficiale, ci sono anche vescovi che stanno veramente con i poveri e vivono il Vangelo come Gesù.
La realtà è complessa: da un lato l’apparenza, l’abito, prelati considerati come i grandi della terra, dall’altro preti che hanno appena di che mangiare. Come si può spiegare questa contraddizione?
La Chiesa porta ancora con sé le conseguenze dell’editto di Milano del 313 d.c. con il quale Costantino fermò le persecuzioni per fare del Cristianesimo la religione dell’Impero. La sua non fu una decisione da credente (si sarebbe convertito solo in punto di morte), ma da politico: si era infatti reso conto che le virtù sulle quali poggiava l’Impero si stavano sgretolando, che i culti pagani non infondevano spirito di sacrificio, tanto che l’esercito era ormai composto solo da mercenari; e invece, all’opposto, vedeva il coraggio e l’eroismo dei cristiani che si lasciavano uccidere e mangiare dai leoni pur di difendere la loro fede. “Ecco, è lì che troverò un sostegno” disse a se stesso, e così fermò le persecuzioni.
Fin lì tutto bene. Solo che a quel punto è cominciata una piaga dalla quale la Chiesa non è ancora guarita: i cristiani, da perseguitati, sono diventati privilegiati. La figura del vescovo è stata assimilata a quella del prefetto con conseguenze che si vedono anche oggi: quando c’è una cerimonia pubblica, nella tribuna si vedono il ministro, il generale, il comandate della Polizia e il vescovo. Il vescovo non è con il popolo, non è tra la folla.
Siamo stati liberati in parte da questa situazione con l’anticlericalismo: l’anticlericalismo è stata una reazione contro il clericalismo, cioè contro la tendenza a diventare uomo di Chiesa per avere una situazione privilegiata. Ma certe situazioni continuano a presentarsi: ci sono molte vocazioni nell’Africa povera di oggi, perché avere un figlio che diventa prete significa aver in casa qualcuno che potrà distribuire dei privilegi ai fratelli, alle sorelle, ai vecchi genitori. Una decina di anni fa, a Kinshasa, in Congo, un cardinale ha avuto il coraggio di mandar via la metà dei seminaristi perché avevano cominciato uno sciopero, esigendo che il cibo della loro mensa non fosse il cibo della loro terra, ma fosse lo stesso cibo offerto ai loro insegnanti venuti dall’Europa. Quei seminaristi non pensavano che i professori, abituati alla cucina europea, si sarebbero ammalati col cibo della foresta, a loro importava solo essere trattati come gli europei. La decisione del cardinale, allora, è un segno di speranza.
Alla luce di tutto questo, le è rimasta fiducia nella Chiesa?
Sì, perché io guardo la Chiesa dall’interno, non dalle apparenze, non dai segni esterni, ma da quelli reali, dalle moltitudini di preti che animano gruppi di operai, di contadini, in tutto il mondo.
Nella nostra epoca non si deve essere pessimisti riguardo alla Chiesa; ma bisogna essere vigili. Non se ne parla molto ma c’è una moltiplicazione di piccole chiese, non scismatiche o eretiche, di comunità formate da laici, che possono rivelarsi molto importanti per un ringiovanimento, per una chiamata molto più reale alla partecipazione; mentre prima del Concilio, quando si parlava di Chiesa, si pensava soltanto ai preti, alle suore, e solo secondariamente ai laici. La chiesa invece è fatta da ognuno di noi e da tutti noi.
Che consiglio può dare a una piccola realtà come quella di Romena?
Il consiglio è quello di lasciare sempre un vetro rotto nella vostra comunità. Le piccole comunità sono una risorsa straordinaria per la chiesa. Ma è necessario che sappiano rimanere aperte al disagio, aperte all’altro: se si lasciano vedere le proprie ferite, le proprie incompiutezze, i propri vetri rotti, è più facile che una persona che cerca aiuto senta di potersi fermare.
