Il blog di Romena, a cura di Massimo Orlandi

Il morso del più

Luigi Ciotti - Il morso del più (1)“Amici, non dobbiamo sentirci mai arrivati, mai a posto. Dobbiamo sentire sempre prepotente dentro di noi il morso del più, del dare di più”.
Le sento sempre addosso queste parole di don Ciotti, e ne sento anche parecchie altre: le sue ‘pedate’, le sue provocazioni, il suo affettuoso spingerci verso l’oltre sono, per noi di Romena, un carburante fondamentale.
Nei mesi scorsi ho recuperato le parole che Luigi aveva pronunciato in tanti incontri con noi. Quelle parole sferzanti, vive autentiche, potevano, ne ero convinto, camminare ancora anche in una forma diversa, quella di un libro. Finalmente ora “Il morso del più” è arrivato,  portando con sé, spero, tutta la sana collera,  tutto il coraggio, tutta la passione d’amore di uno dei più grandi testimoni di fede e di speranza del nostro tempo…

“Il morso del più” è un libro popolato di volti. Dentro ci sono tante storie, tanti incontri che hanno popolato la vita di questo prete di strada che ha sempre cercato di accompagnare le persone, mai di portarle.
Mi piace condividere con voi almeno una delle storie  di questo libro, la storia di Tina, una giovane moldava, vittima della tratta della prostituzione, uccisa e poi lasciata per tredici mesi in una cella frigorifera, ma non dimenticata da don Ciotti, che ha voluto dedicarle un funerale solenne, coinvolgendo migliaia di persone.
Una storia di dignità e di sollievo degli ultimi, una storia che Fabrizio De Andrè avrebbe potuto trasformare in una canzone. Non a caso don Ciotti me la raccontò in un incontro a Torino, davanti a Dori Ghezzi, la compagna di vita di Fabrizio. E non a caso, nel libro, e qui sotto, Dori Ghezzi la commenta.

Ciotti_10Un giglio bianco per Tina

Gli ultimi rischiano di essere dimenticati anche al momento dell’ultimo saluto.
Ricordo che una volta, in un piccolo paese, ho dovuto fermare un passante e chiedergli di darci una mano a portare la bara sulle spalle: eravamo andati solo in tre, al funerale di quella persona.

È per questo che con gli amici del Gruppo Abele abbiamo voluto che Tina Motoc avesse un funerale solenne.

Tina era una giovane ragazza moldava, madre di una bambina. Era giunta in Italia all’età di vent’anni. Come tante altre ragazze, Tina inseguiva il sogno di una terra promessa dove riscattarsi dalla povertà e garantire alla figlia un futuro migliore. Il “sogno” si era però infranto contro la drammatica realtà della tratta, della prostituzione forzata, dello sfruttamento disumano.

La sua giovane vita era stata spezzata con violenza e il suo corpo, sfigurato, è stato custodito per mesi in una cella frigorifera dell’obitorio di Torino nell’attesa che l’inchiesta rivelasse la verità sull’omicidio.

Quando è stato infine possibile salutarla, abbiamo organizzato un funerale secondo il rito ortodosso. Eravamo in tanti, quel 23 marzo 2002, migliaia di persone ciascuna con un fiore in mano. Volevamo ricordare Tina, ma volevamo anche che la sua morte violenta risvegliasse troppe coscienze addomesticate, cieche di fronte alle nuove schiavitù, al  mercato delle speranze e dei bisogni.

Alla fine del funerale, tra tanta gente, ho visto avvicinarsi due donne.
Erano Dori Ghezzi, la compagna di Fabrizio De Andrè, che con le sue canzoni ha dato dignità e poesia a storie come quelle di Tina, e la grande, meravigliosa Fernanda Pivano, che ci ha fatto conoscere la grande letteratura americana del 900.

C’erano anche loro, con un giglio bianco in mano, per dare l’ultimo saluto Tina.

                                                                  Luigi Ciotti 

G30223Carissimo Luigi,

che grande emozione “riascoltare” le tue parole: mi riportano inevitabilmente a rivivere e a ricondividere quei sentimenti profondi che ci hanno legato a Tina Motoc, come racconti in queste pagine.

Con Fernanda ci siamo veramente sentite parte della grande famiglia con cui hai voluto circondare Tina. Come posso dimenticare il significato del tuo dono quel giorno: il pane che durante il rito portava una candelina accesa è diventato per me un simbolo che ridona dignità e vita a Tina, così come a Marinella, e alle tante, troppe, che, come loro, sempre più quotidianamente ci addolorano.

Fabrizio disse di aver scritto La canzone di Marinella per «reinventarle una vita e addolcirle la morte». Ecco, lui riesce sempre a trovare le parole giuste. E tu, in prima linea, con coraggio, a dimostrarci ogni giorno – lo dico con tue parole – che «impegno è speranza».

Dori Ghezzi