Domenica sera, 17 luglio, Lella Costa reciterà in Casentino. Non è solo una notizia, è un evento.
Quando certi personaggi straordinari del mondo artistico transitano dalle nostre parti dovremmo sentire tutti un moto d’orgoglio, una gioia interiore,
I suoi monologhi sono una delle espressioni più coinvolgenti, più emozionanti, più appassionanti del nostro teatro. Quando si ascoltano ci si dimentica di essere pubblico e in qualche modo, misterioso, ci si sente accanto a lei, con lei. Sulla scena.
Il motivo? Gino Strada, suo grande amico, lo spiegava così: “Lella – diceva – è una donna straordinaria, molto prima che un’attrice. Anzi, il termine mi sembra fuori luogo, nel caso di Lella. Perchè Lella recita splendidamente, ma non sta recitando. La sensibilità, l’intelligenza e l’ironia appartengono a lei, non al copione”.
La prova di tutto questo arriverà domenica sera alla Fondazione Baracchi di Bibbiena. Lella metterà in scena il suo ultimo spettacolo “Se non posso ballare, non è la mia rivoluzione”, un suo originale omaggio al genio, al coraggio, alla tenacia dell’universo femminile.
La Fondazione aveva già avuto Lella come sua ospite 13 anni fa. L’occasione era un incontro del ciclo “Parole e silenzio”. Io, insieme all’amico e collega Paolo Ciampi, avevo avuto l’onore di condurre quella conversazione e di trascorrere un’intera giornata con lei.
Il filo del contatto iniziato quel giorno non si era più interrotto. E finalmente è arrivata l’occasione giusta per alimentarlo di nuovo.
Per condividere l’attesa di questo momento vi propongo un bellissimo passaggio dell’incontro del 2009, in cui Lella ci racconta quella che per lei, è l’emozione che si sprigiona nel momento in cui un suo spettacolo inizia. Un’emozione che vedremo accendersi nel suo sguardo anche domenica sera…
Mi viene in mente un’immagine di un film, “Il flauto magico” di Bergman: durante l’intervallo il bambino e il protagonista guardano chi c’è in sala. Questa è una cosa da non fare mai perché non bisognerebbe mai vedere in faccia chi hai in platea.
Ma anche se non si è ancora guardato chi è in sala, per me quel momento, prima che tutto succeda, è gioia pura, è teatro vero.
Questa sensazione c’è soprattutto ai debutti, o in luoghi o città in cui non sei mai stato, e si fa annunciare con un brivido – “Come mi accoglieranno?” – che diventa anche un fremito di entusiasmo: “Che bello, si comincia!”. La verità è che per me il palcoscenico è proprio una casa, e come una casa mi dà una sensazione di agio totale.
Mi sento fortunata per questo. So invece che ci sono molti miei colleghi anche molto bravi che quel momento lì lo soffrono. Hanno una sorta di rapporto un po’ conflittuale con il pubblico. Il pubblico è comunque da conquistare, ma c’è chi lo vive come una sorta di nemico da espugnare. Per me si tratta invece della seduzione più dolce.
Poi io sono da sola in scena: grande narcisismo, sicuramente, ma anche grande fragilità. Sei sola e qualunque cosa ti può ferire.
Quando il pubblico ancora non sa cosa sta per succedere tu lo sai ma non sai come da loro verrà accolto. E questo è il momento in cui percepisco il motivo per cui questo mestiere continua ad esistere in un’epoca in cui apparentemente tutto, secondo quanto ci raccontano, è riproducibile. Il teatro no.
Quello che succede ogni sera tra gli attori e il pubblico è un unicum che non si ripeterà più.