Ogni anniversario speciale, nella storia di Romena, porta con sé il peso di una crisi e il segno di una speranza. E’ come se i numeri pari ci invitassero a una svolta, a un ripensamento, a uno sguardo profondo in quello che siamo e vorremmo diventare.
Così è per i nostri trent’anni. In questo caso la dimensione della crisi è molto più larga di noi, riguarda una tempesta che ha messo in subbuglio il mondo facendone esplodere le contraddizioni, e lasciando poi tutti quanti in mezzo al guado, in un mare di incertezze.
Romena è ripartita, ha riacceso le sue domeniche nei grandi spazi all’aperto, ha già riabbracciato, almeno col cuore, tanti suoi viandanti.
Ma è una Romena che non è uscita indenne dalla pandemia; come tante altre altre realtà è piuttosto acciaccata e deve riscoprirsi, deve ripensarsi, deve rigenerarsi.
Non sappiamo quale sarà l’esito di questa fase. L’unica cosa che si può provare a fare è raccontarla. Ed è quello che mi propongo di fare in questo spazio, da oggi:
raccontare i giorni di quest’estate, a Romena, inserendoli nel solco di un cammino di trent’anni di Fraternità.
In questo ultimo anno ho scritto un libro che prova a tenere insieme il percorso della nostra realtà dal 1991 a oggi: si intitola “Romena porto di terra”. Mi sarà utile per vedere il cammino presente e futuro nel solco della storia che lo ha generato, e alla luce delle persone e dei fatti che lo hanno ispirato.
E allora, andiamo a iniziare.
Per aprire questo diario, vi propongo la pagina che apre il nostro ultimo giornalino. “Un nuovo giorno”. Una piccola, artigianale rampa di lancio, fatta di parole, per inaugurare questo spazio.
Il diario di un’estate.
Quando cominciò la pandemia dividemmo la nostra vita in un ‘prima’ e in un ‘dopo’. Confidammo nel dopo per sopportare il letargo forzato delle nostre vite.
Il virus, al netto del carico di morte e di dolore che portava con sé, poteva paradossalmente aiutarci a curare le contraddizioni estreme della nostra società.
Non è andata così. A un anno di distanza siamo ancora in una terra di nessuno: i guasti del ‘prima’ sono ancora tutti lì, i benefici del ‘dopo’ ancora poco evidenti, anche perché il virus ha dimostrato di avere una poco confor- tante tendenza alla stanzialità.
Ci troviamo così in un limbo dentro il quale trova terreno fertile un rischio strisciante: il rischio dell’assuefazione.
L’altra mattina uscendo di casa ho avvertito una strana sensazione al viso, qualcosa che stonava: non avevo indossato la mascherina. Un anno fa la mettevo provando disagio, ora è già una parte di me. È un esempio, solo di superficie, per mostrare ciò che può accaderci: la trasformazione di uno stato di necessità in una condizione normale di vita.
La prima fase di lockdown ci aveva rimesso in contatto con la nostra interiorità, ci aveva riconsegnato il valore del tempo. Avevamo ritrovato parti di noi sommerse dalla frenesia dei cosiddetti tempi ‘normali’.
La persistenza di questa fase di eccezionalità ha però lavorato anche in un’altra direzione: ha affievolito la percezione delle nostre rinunce. Lo stare lontani ‘almeno un metro’ è ormai una condizione abituale, la diminuzione delle relazioni umane un dato acquisito.
Pensateci: se all’inizio soffrivamo per gli abbracci mancanti, ora li abbiamo quasi messi in archivio.
Scrive amaramente Luigino Bruni, nella riflessione che pubblichiamo in questo numero, che gli uomini sanno abituarsi alla loro infelicità. È esattamente questo l’effetto dell’assuefazione.
Per uscire da queste sabbie mobili è necessaria una scossa, un sussulto. Ci occorre “Un nuovo giorno”.
Il “nuovo giorno” è un invito a rifare un passo verso le nostre relazioni, a ricominciare a tendere gli uni verso gli altri. Lo si può fare con prudenza, nel pieno rispetto delle regole.
Ma va fatto ora, perché più passa il tempo e più faremmo fatica. Ci abitueremmo a stare nel nostro guscio così come ci siamo abituati a indossare la mascherina ogni volta che usciamo.
A Romena abbiamo pensato, per questa estate, di non ripartire con quelle attività, corsi e convegni, che impegnano fortemente gli ambienti al chiuso, e che quindi comportano maggiori rischi di contagio. E’ necessario procedere con gradualità, in sicurezza.
Allo stesso tempo però abbiamo deciso di dare una spinta alle nostre domeniche, confidando nei nostri grandi spazi all’aperto. Ritrovarsi nei luoghi amati, almeno per un giorno, ritrovare le persone care, riconoscendole dagli occhi, se non dal sorriso, ritrovare l’energia degli incontri: questo è il nuovo giorno che abbiamo in mente.
Non dobbiamo dimenticare il vuoto relazionale di questi mesi, evidenzia ancora Bruni: ricordarlo ci aiuta a fare presente a noi stessi ciò che stiamo vivendo.
Ma quel vuoto non dobbiamo invece inserirlo nelle nostre vite come una condizione inevitabile.
Il nuovo giorno che vogliamo vivere è solo un piccolo raggio di luce in un cielo ancora pieno di nuvole. Ma può bastare a tener accesa la nostra voglia di contatto, di relazioni. Di umanità.
